Cicerone, Brutus, 6-9 (trad. di Emanuele Narducci)
6. Etenim si viveret Q. Hortensius, cetera fortasse desideraret una cum reliquis bonis et fortibus civibus, hunc autem aut praeter ceteros aut cum paucis sustineret dolorem, cum forum populi Romani, quod fuisset quasi theatrum illius ingeni, voce erudita et Romanis Graecisque auribus digna spoliatum atque orbatum videret. 7. equidem angor animo non consili, non ingeni, non auctoritatis armis egere rem publicam, quae didiceram tractare quibusque me adsuefeceram quaeque erant propria cum praestantis in re publica viri tum bene moratae et bene constitutae civitatis. quod si fuit in re publica tempus ullum, cum extorquere arma posset e manibus iratorum civium boni civis auctoritas et oratio, tum profecto fuit, cum patrocinium pacis exclusum est aut errore hominum aut timore. 8. ita nobismet ipsis accidit ut, quamquam essent multo magis alia lugenda, tamen hoc doleremus quod, quo tempore aetas nostra perfuncta rebus amplissimis tamquam in portum confugere deberet non inertiae neque desidiae, sed oti moderati atque honesti, cumque ipsa oratio iam nostra canesceret haberetque suam quandam maturitatem et quasi senectutem, tum arma sunt ea sumpta, quibus illi ipsi, qui didicerant eis uti gloriose, quem ad modum salutariter uterentur non reperiebant. 9. itaque ei mihi videntur fortunate beateque vixisse cum in ceteris civitatibus tum maxume in nostra, quibus cum auctoritate rerumque gestarum gloria tum etiam sapientiae laude perfrui licuit. quorum memoria et recordatio in maxumis nostris gravissimisque curis iucunda sane fuit, cum in eam nuper ex sermone quodam incidissemus. |
6. Se infatti fosse in vita, forse ogni altra cosa Quinto Ortensio rimpiangerebbe insieme al resto dei cittadini onesti e forti d'animo; da un dolore, però, sarebbe gravato più degli altri, o insieme a pochi altri: di vedere il foro del popolo romano, che era stato per così dire il teatro del suo talento, spogliato e depauperato di ogni voce erudita e degna di essere ascoltata da orecchie romane e greche. 7. E io sono angosciato dal pensiero che lo stato non senta il bisogno delle armi della saggezza, dell'ingegno e dell'autorità, che avevo imparato a maneggiare, alle quali mi ero assuefatto, e che erano patrimonio di un uomo ragguardevole n ella vita pubblica altrettanto che di una comunità ben regolata nei costumi e bene ordinata. Se mai vi fu nella nostra vicenda politica un momento in cui l'autorità e l'eloquenza di un buon cittadino potevano strappare le armi dalle mani di compatrioti caduti preda dell'ira, questo fu senza dubbio quando il patrocinio della pace venne impedito dall'abbaglio e dal timore di certuni. 8. Così a me stesso è accaduto che, per quanto vi fossero ben altre sventure di cui lagnarsi, tuttavia soprattutto di una cosa ho dovuto affliggermi: nel periodo in cui un uomo della mia età, dopo avere ottenuto i più grandi successi, avrebbe dovuto rifugiarsi, per così dire, in un porto non di inerzia né di inoperosità, ma di una tranquillità moderata e onorevole, e quando la mia eloquenza ormai incominciava a incanutire, e aveva raggiunto una certa sua maturità, e quasi vecchiaia, allora venne dato di piglio alle armi: quelle armi che proprio coloro i quali avevano appreso a far di esse un uso glorioso, non trovavano il modo di impiegare in maniera salutare. 9. Perciò io ritengo che siano vissuti in maniera fortunata e felice, nelle altre città e specialmente nella nostra, coloro ai quali fu concesso di godere appieno sia dell'autorità e della gloria delle gesta compiute, sia dell'onore tributato alla loro saggezza; richiamarli alla memoria, e rammentarli, in mezzo alle mie più grandi e più gravi preoccupazioni, mi fu davvero gradito, quando, or non è molto, una conversazione mi portò a imbattermi in questo argomento. |